Le storie di Instagram e la morte della Tv

La domanda E se L’IGTV e le Stories sui social fossero la nuova televisione del futuro? posta da un utente di Quora mi ha subito incuriosita. Perché la risposta mi pareva ovvia, ovvero: “Sì!” Però nulla è mai ovvio nei processi di comunicazione, visto che spesso quello che si crede come assoluto parte da un’esperienza di consumatore finale che non può essere altro che soggettivo e parziale.
Così ho tentato di integrare esperienza da appassionata di “storie” e studiosa di media, in una risposta pubblicata in origine proprio su Quora ma che ricondivido anche qui.

Le storie come esperienza televisiva

Da semplice spettatore posso rispondere: per me da almeno 2 anni le storie di Instagram hanno sostituito la Tv. Non accendo la Tv perché non sono mai in casa, figuriamoci in salotto. Seguo le storie di Cliomakeup, di Fedez e di Silvia Fascians come anni fa guardavo Sex and the City e Gossip Girl. Con una differenza: con Silvia Fascians posso andare ad allenarmi al parco Sempione il venerdì sera (durante gli eventi di Adidas Runbase), mentre con Sarah Jessica Parker non ho mai potuto andare a fare shopping. Perché le (micro)celebrità di Instagram hanno sviluppato nuove forme di coinvolgimento molto più ravvicinato che favoriscono la fidelizzazione.

La morte della Tv

Da studiosa dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione e di social media, posso rispondere che la questione è complessa e parte da lontano. Almeno dal 1995, quando Nicholas Negroponte in “Being digital” aveva profetizzato la morte della Tv a favore di una scatola nera in cui ci sarebbe stata la convergenza di ogni forma di intrattenimento.

Nei 20 anni successivi i teorici della transmedialità come Henry Jenkins hanno parlato di fallacia della scatola nera, perché non solo la Tv non si stava estinguendo, ma i dispositivi per fruire l’intrattenimento si moltiplicavano (Pc, smartphone, console, tablet, …).

Nell’ultimo decennio le pratiche spettatoriali si sono polverizzate, per questo i produttori di contenuti hanno sviluppato nuove strategie di coinvolgimento con tre caratteristiche:

  1. il pubblico di riferimento non è la massa generalista ma nicchie partecipative (fan, millennials, …)
  2. la narrazione è transmediale: pensano al prodotto come ad un testo primario (la serie tv, il lungometraggio, il videogioco) corredato da una molteplicità di testi secondari (le storie su instagram, i personaggi della fiction che prendono vita su Twitter, …)
  3. le distribuzione avviene attraverso piattaforme crossmediali che consentono la fruizione frammentata (comincio a vedere la serie sulla Tv, poi finisco di vedere l’episodio sullo smartphone).

Nella prima fase di sviluppo la transmedialità consisteva nell’espansione delle storie nate per Tv, Cinema e Videogiochi in altri ambienti.

Ora però mi pare di osservare un fenomeno opposto: lo storytelling parte dai social media e poi eventualmente si sviluppa in forme narrative più strutturate. Alcuni esempi? Dagli YouTuber della prima generazione, che diventati famosi con i vlog hanno poi sviluppato micro-formati cinetelevisivi (la serie Lost in Google è epica e con tutte le tecniche di narrazione postmoderna!). Ai personaggi fittizi che nascono su Facebook e che poi costruiscono romanzi. Da Pinuccio con il romanzo TrumpAdvisor a Martina dell’Ombra con Fake. Vi suggerisco di approfondirne l’analisi perché al loro interno sono utilizzate sia strategie di storytelling tradizionale sia strategie di engagement funzionali al coinvolgimento del pubblico sui social.

Concludo questa riflessione con il caso di Freeda, primo progetto editoriale in Italia ad aver colto a pieno le potenzialità dello storytelling audiovisivo sui sociale e alle potenzialità di Instagram per costruire un format che credo sarà il futuro dell’intrattenimento audiovisivo.

Quindi francamente non so se la Tv è morta, io non la guardo più!

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