Blue Whale e Pro-Ana: media, censura e panico morale

La paura. La paura per i propri figli (o per i giovani, in generale, considerati una “categoria debole”). Il sentimento su cui il mondo dei media spesso costruisce le notizie. È stato così per il fenomeno Blue Whale. È stato così per i siti Pro-Ana. Due casi mediatici con molte caratteristiche in comune e che descrivono il cortocircuito che caratterizza il sistema dell’informazione nell’era della post-verità, un’era in cui il panico morale diventa altamente notiziabile e contribuisce alla costruzione della realtà stessa.

Nell’era della post-verità è sempre più difficile definire vera o falsa una notizia, in quanto spesso essa è il risultato di un processo di comunicazione che amplifica enormemente fenomeni sociali preesistenti. La notizia dell’esistenza di gruppi WhatsApp di istigazione all’anoressia o al suicidio, magari descritti come “una nuova moda” può indurre le persone a crearli, anche se prima della notizia stessa non esistevano o avevano visibilità e seguito limitato. Tanto più i media parlano del fenomeno, tanto più si diffonde, tanto più il pubblico lo teme. tanto più le istituzioni tentano di censurarlo. E di conseguenza chi pratica comportamenti a rischio  sviluppa strategie di autodifesa per nascondersi agli occhi dei media, della legge, ma anche da chi può fornirgli aiuto.

Pro-ana: quando la censura è una pessima idea

Prima si parlava di siti pro-ana, poi dei blog, ora dei gruppi WhatsApp: “Si chiamano #pro-ana (sic.), i siti web che attirano le ragazze per farle diventare anoressiche o per peggiorare la condizione di salute in tema di cibo” (blastingnews.com, 26 maggio 2017). Più di un ministro ha proposto di istituire il reato di istigazione all’anoressia per tentare di arginare il fenomeno. La proposta non si è mai concretizzata ma è sintomatica dell’atteggiamento delle istituzioni che reagiscono ai fenomeni della rete con la più inefficace delle soluzioni: la censura. 

Negli ultimi anni infatti la struttura dei siti pro-ana si è evoluta verso gruppi sempre più disconnessi per poter più facilmente difendersi dai potenziali tentativi di censura (vedi: Online networks of eating-disorder websites: why censoring pro-ana might be a bad idea). Al contempo si è diffusa nei social media, altri ambienti che hanno reagito con la censura (come Instagram e Tumbrl). Ancora una volta inefficace: se Instagram blocca la ricerca per hashtag legati alle culture Ana, gli utenti ne inventano altri. Nuovamente l’unico effetto di un atteggiamento proibizionistico è la ghettizzazione del fenomeno.

Oltre ad essere inefficace, la censura è anche ingiustificata: gli ambienti etichettati come “pro-ana” infatti solo ad una lettura superficiale sono ambienti di istigazione all’anoressia. Al contrario possono diventare ambienti di supporto per superare l’esperienza negativa e aprirsi a prospettive di guarigione, come emerge dall’analisi delle biografie pro-ana e pro-recovery.

 

Blue Whale: quando lo storytelling mediale diventa profezia che si autoavvera

Nel contesto giornalistico italiano il fenomeno Blu Whale è esploso con un servizio del Le Iene; a cascata ne hanno cominciato a parlare tutte le principali testate definendolo un “gioco della morte”: “La Blue whale è nata in Russia e ha già portato alla morte 157 adolescenti. Il “gioco” dell’orrore consiste nel seguire alcune regole per 50 giorni e l’ultimo giorno bisogna suicidarsi da un palazzo molto alto” (Il Giornale, 15 maggio 2017). Nelle settimane successive i giornalisti (vedi l’articolo di Simone Cosimi su Wired) e gli studiosi delle dinamiche di rete (vedi il video di Matteo Flora) hanno denunciato il clamore attorno alla balena blu mettendo in luce il ruolo dei media stessi nella diffusione del fenomeno. In particolare, secondo il sociologo Davide Bennato la Blue Whale è il risultato di tre diverse dinamiche socio-mediali:

  • effetto Werther: i suicidi a cui viene data visibilità generano emulazione;
  • teorema di Thomas: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Quindi: se i giornalisti dicono che ci sono dei giochi della morte online che portano al suicidio, le persone li creano veramente, li cercano, li temono, o associano ad essi fenomeni sempre esistiti ma che forse non avevano un nome o uno storytelling così strutturato e che quindi avevano meno visibilità e (per il teorema di Werther) meno emulazione.
  • filter bubble: gli algoritmi dei social media costruiscono la nostra esperienza di fruizione della rete in base ai nostri interessi; attorno a noi vediamo ciò che vogliamo vedere e abbiamo poche occasioni per accedere a rappresentazioni alternative.

E quindi?

L’unico “quindi” con cui mi sento di concludere è che questi fenomeni sono molto complessi “quindi” semplificarli costruendo narrazioni dove c’è un unico “cattivo”, il creatore del gruppo che istiga al suicidio, è fin troppo semplicistico (e irrealistico). Se esistono gruppi di self-harm (che siano pro-ana o di cutter) è perché ci sono persone che trovano in questa pratica uno sfogo. Che trovano nei gruppi online degli ambienti di condivisione in cui sentirsi “compresi” e non stigmatizzati. E il cui vero nemico diventa dunque chi tenta di rubare quell’ultimo spazio di socialità. Il cattivo diventano le istituzioni con i loro tentativi di censura, le funzionalità delle piattaforme con la loro Intelligenza Artificiale (l’ultima novità è il potenziamento degli algoritmi di Facebook per segnalare comportamenti a rischio), i mass media con le loro interpretazioni allarmistiche e stigmatizzanti che costruiscono nuovi nemici anche dove non sono mai esistiti. E se non ci fosse mai stato un curatore di gruppi della morte prima che la stampa ne parlasse? E se nei prossimi mesi si scoprisse che esistono realmente dei “curatori” nati per emulazione di una fantasma creato dal “giornalismo”? A quel punto chi bisognerebbe accusare di istigazione?

 

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